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L’apocalisse delle certezze

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Il termine apocalisse deriva dal greco ἀποκάλυψις (apokalypsis), composto di apó e kalýptein, significa un gettar via ciò che copre, un togliere il velo, letteralmente scoperta o disvelamento.

Prendo spunto da un articolo dello scorso febbraio del Corriere della Sera.it (cliccate qui per leggerlo) per ricordare Michele, trentenne di Udine che il 31 gennaio di quest’anno si è ucciso perché scippato del suo futuro.

Secondo l’esegeta francese Paul Beauchampla letteratura apocalittica nasce per aiutare a sopportare l’insopportabile“. Nasce cioè in momenti di estrema crisi per portare un messaggio di speranza: anche se il male sembra prevalere, bisogna aver fiducia nella vittoria finale del Bene.

Alla tragedia ecco seguire inizialmente la solita tempesta di reazioni, soprattutto degli sciagurati media che profittano per fare scoop di cronaca e misero “spettacolo” per aumentare gli ascolti, finché tutto ritorna al precedente oblio e si parla d’altro, di ciò che, sempre i media, stabiliscono debba essere di moda in quell’istante, mantenendo immutato lo statu quo ante di tutto il resto.

Voglio qui riprendere invece l’argomento proprio quando non se ne parla più, né di Michele, né di tutti quei poveri ragazzi ai quali lo stato italiano non concede più alcuna speranza di lavoro in Patria, vantando iniziative volte solo a fare emigrare i nostri giovani (vedi erasmus) presentandole come panacea per la disoccupazione; c’è stata persino una parlamentare che, con una faccia tosta da fare invidia al Barone di Münchhausen, ha esaltato il progetto erasmus come soluzione della crisi di nascite e “ottimo” impulso per l’integrazione globale, riferendosi alle coppie di studenti di nazioni diverse che procreano in occasione delle “trasferte” di studio, sottacendo che in molti casi queste “esperienze” finiscono con l’alterare profondamente la vita di questi ragazzi, ancora impreparati a cambiamenti tanto radicali della loro quotidianità.

Non lasciamo soli i giovani che hanno difficoltà d’inserimento in questa giungla infernale, soprattutto perché l’abbiamo creata noi stessi, noi 50/60enni rappresentanti  di una generazione di falsi contestatori (i sessantottini) che ci siamo appiattiti sull’ignavia e sull’illusione con la gentile collaborazione di quella massa di incapaci che ci avrebbe dovuto amministrare.

Casi analoghi di suicidi di giovani disperati sono avvenuti all’Università di Palermo con il 27enne Norman Zarcone, dottorando in Lettere, e nel 2010 con un giovanissimo di appena 19 anni che si è gettato dalla stessa finestra 5 anni dopo la tragedia di Norman.

Un suicidio che non è solo frutto della depressione ma è un omicidio di Stato“, dissero i suoi genitori a caldo. Norman aveva lasciato un quaderno dove aveva annotato una sorta di ‘testamento spirituale’. Scriveva “la libertà di pensare e anche la libertà di morire. Mi attende una nuova scoperta anche se non potrò commentarla“.

Questo sconforto che purtroppo si diffonde sempre più fra i giovani può essere arginato solo da una maggiore vicinanza delle famiglie; genitori, fratelli, sorelle e parenti prossimi dovrebbero avere il compito di non abbandonare a loro stessi questi ragazzi, frustrati dalle cosiddette “sfide” e “scommesse” che una fallimentare classe di politici incapaci (e spesso anche corrotti) e di manager fantozziani continua a prospettare per il futuro, senza riuscire a comprendere che tutto ciò non può più costituire per le nuove generazioni stimolo alla crescita e al miglioramento delle prestazioni, prospettando piuttosto un angosciante futuro carico di tensioni, eccessiva sfibrante competitività e, soprattutto, continua conflittualità con il prossimo che così non può che essere visto solo come unnemico da sconfiggere a tutti i costi, da dover colpire e calpestare per poter sopravvivere. 

Questo è tutto il contrario dell’insegnamento cristiano, di quella religione che tutti noi “vantiamo” di professare. Quando si sale sul “pulpito”, sia esso politico o istituzionale sia prima di utilizzare sempre i soliti stereotipi dialettici che fanno riferimento alla sciocca “necessità” di successo assoluto in campo sociale (le famose sfide e scommesse) ci si dovrebbe ricordare che la serenità e le certezze sono le componenti fondamentali per una vita felice e appagante, e i nostri giovani, sottoposti invece a prospettive e modelli di vita sempre più stressanti e competitivi, rischiano di crollare psichicamente e, quando va bene, se ne vanno all’estero; appare poi totalmente insensato che qualche stupido e incosciente rappresentante istituzionale prospetti positivamente quest’ultima eventualità: ogni giovane italiano che lascia la propria terra, o ancora peggio se si uccide, è un pilastro in meno nella costruzione del futuro dell’Italia.

“Cari” politici dei miei stivali, quando ciarlate di “crescita”, di ripresa economica, di indici statistici e di tutte le altre follie che vi siete inventati per mantenere sempre la corda tesa in questa ormai cronicizzata crisi, pensate realmente che questi obiettivi possano essere raggiunti dalla vostra decrepita e corrotta generazione? Non è certo retorica sostenere che il futuro è dei giovani e “levarseli dai piedi” può solo castrare qualsiasi aspettativa di crescita sociale.

Autore dell'articolo: Sergio Figuccia

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