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Il protagonismo è la droga più pericolosa

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Ecco a che punto arriva ormai l’aberrazione da protagonismo mediatico.

Si fanno chiamare “youtuber” in questo folle mondo che partorisce fenomeni sociali e neologismi alla velocità della luce, sì, proprio quella che non vedremo mai se continuiamo a non reagire una volta per tutte agli effetti deleteri di certa scriteriata tecnologia.

Sono giovani, ma non sempre, con la voglia sfrenata di farsi notare, schiavizzati da un obiettivo comune che ritengono sia il meritato premio alla loro creatività e al loro spudorato istrionismo.

Certamente ce ne sono di veramente bravi, ma si tratta di pochi fiori pregiati in una vasta terra coltivata a gramigna. La grande massa di questi nano-cineasti ( i loro “lavori” vengono chiamati “corti”) produce però video demenziali, un po’ schizzati, talvolta anche aggressivi, spesso incomprensibili, riempiendo il web e soffocando la qualità di quei pochi che sono capaci di fare qualcosa di buono.

Peccato! Perché, dobbiamo ammetterlo, ci mettono pure l’anima per riuscire nel loro intento e spesso riescono anche a superare la soglia della popolarità, ma non hanno ancora capito che quest’era, sacrificata al dio della tecnologia globale, non permette alcuna continuità automatica nella diffusione del materiale pubblicato in rete, tutto viene fagocitato in pochi giorni, se non in poche ore, nell’immenso archivio dell’oblio più totale, nel buio infinito del nulla digitale.

Gli stessi video definiti virali, nonostante milioni di visualizzazioni, finiscono per spegnersi come una supernova, prima luminosissima e un istante dopo collassata nel niente.

Quindi per mantenere la popolarità conquistata gli youtuber devono fare cose sempre più eclatanti, sempre più folli, sempre più estreme. Così, per realizzare i loro nuovi video, si fanno pendolare dai tetti di grattacieli di oltre cento piani, si lanciano con la bicicletta dalle montagne più alte, urlano le offese più irripetibili a coloro che etichettano unilateralmente come loro nemici (ma questo lo fa anche Sgarbi alla sua veneranda età), e talvolta si ammazzano anche, quasi a voler dimostrare di essere superiori agli altri che non hanno la capacità di farlo, come nel caso di Nasim Aghdam, una giovane di 39 anni residente a San Diego, che ha fatto fuoco nel campus di San Bruno ferendo tre persone per poi togliersi la vita. Si è poi scoperto che Nasim odiava YouTube, il social che tuttavia aveva utilizzato per anni per pubblicare i propri video e che avrebbe voluto distruggere solo perché gli aveva oscurato alcune sue produzioni video.

In questa corsa sfrenata alla vittoria sugli altri, alla supremazia delle visualizzazioni in rete, alla follia di scommettere o sfidare sempre e costantemente chiunque, che nel terzo millennio sembra essere diventata la regola imposta dalla globalizzazione, da tutti i media, e da certi stupidi politici che la ripropongono senza soluzione di continuità alla massa popolare, ci mettono lo zampino anche gli stessi social.

Pare infatti che YouTube abbia stabilito nuove regole che escludono dalla monetizzazione i canali con meno di 10.000 abbonati e meno di 4.000 ore di visualizzazione, quindi, con molta probabilità, i filmati di Nasim sono stati cancellati e non pagati perché rientravano nella fattispecie esclusa.

Nulla da obiettare sulle scelte aziendali volte a limitare i costi, ma è corretto spingere la gente, senza un tradizionale lavoro stabile, a dedicarsi a quest’attività di coinvolgimento delle masse popolari perché in qualche modo remunerata, e poi bloccarne la produzione perché non ha mantenuto i “numeri” prestabiliti?

Sembra proprio di avere a che fare con un nuovo tipo di droga letale che da assuefazione e ti costringe a fare i salti mortali per procurartela.

D’altra parte è ampiamente comprovato che i mass shooter, i killer di massa che tante volte hanno ucciso soprattutto nelle scuole statunitensi e ai quali è riconducibile anche la stessa Nasim Aghdam, sono profili alla ricerca di notorietà; la ricerca compulsiva della notorietà è dunque una grave patologia da curare, non una dimostrazione di virtù e capacità.

Autore dell'articolo: Sergio Figuccia

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