Il mondo intero si è ribellato alle fake news che hanno inquinato l’informazione e l’opinione pubblica in questi ultimi tempi.
Ma non risultano meno infestanti delle celebri bufale certi atteggiamenti della carta stampata, delle tv pubbliche o private, e dei giornali on line che, per ottenere maggiore audience, distorcono l’informazione fino ad alterarne la corretta percezione nelle masse popolari.
Vi segnaliamo un ottimo articolo di Nadia Somma, attivista del Centro antiviolenza Demetra, pubblicato il 9 settembre su ilfattoquotidiano.it (cliccate qui per leggerlo).
Nell’articolo si legge tra l’altro: “Che cosa si deve dire, ancora, sulla narrazione tossica dei media? Se i giornalisti imbellettano la violenza contro le donne e la chiamano “amore, “passione” e iniettano linfa nella sottocultura del femminicidio; se provano empatia per i violenti e la loro triste sorte ma dimenticano le donne uccise; se continuano a inflazionare l’ego dei killer raccontandoci quanto soffrissero per un “amore non corrisposto”, quanto “desiderassero” la donna che hanno massacrato, quanto speravano in un sì; —(omissis)— se ci dicono che la vita delle donne non vale nulla di fronte alla frustrazione di un uomo e se infine, colpevolizzano le donne uccise: che cosa dovremmo scrivere ancora?”
Nadia Somma ha perfettamente ragione e la sua acuta osservazione dovrebbe approdare in Parlamento.
La stampa va educata, perché non è più capace di autoregolarsi.
Andrebbe studiata subito una legge che preveda l’imposizione di un codice deontologico cui tutti i giornalisti dovrebbero attenersi. Purtroppo la perenne sfida di tutti contro tutti per acquisire sempre maggiore visibilità, specialmente nell’infame mondo dell’intrattenimento televisivo e della pubblica informazione, porta i cosiddetti “giornalisti” a strafare, a interpretare in modo alternativo la realtà per attirare maggiormente l’attenzione della gente, costi quel che costi. Dunque solo con una nuova regolamentazione che possa imporre per legge norme precise anche sulle modalità di esposizione dei fatti potremmo sperare di avere in futuro un’informazione giusta e non distorta dalle esigenze di popolarità.
Frasi a effetto, volgarità senza ritegno, accuse infamanti contro indagati che poi si scoprono essere innocenti, o viceversa frasi subliminali che tendono ad ammorbidire, se non perfino giustificare reati gravissimi (già si chiama peraltro “apologia di reato”), titoli pirotecnici che non hanno alcun riferimento all’articolo cui si riferiscono, insomma tutta una MATERIA CHE VA SERIAMENTE REGOLAMENTATA (come già fatto per le fake news) CON PENE PECUNIARIE RILEVANTI E, NEI CASI PIU’ GRAVI, RIPERCUSSIONI PENALI PER I RESPONSABILI E BLOCCO TEMPORANEO DELL’ATTIVITA’ GIORNALISTICA.
Questa non è CENSURA, piuttosto CIVILTA‘ applicata all’informazione.
La libertà di pensiero non deve mai prescindere dai vincoli di correttezza professionale cui devono sottostare i media e tutti i canali dell’informazione pubblica.
In futuro, dopo aver generato il neologismo del femminicidio, non vorremmo che si arrivi a parlare di informicidio.