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D’estate escono alla scoperto: lasciano le case, gli uffici, le scuole, le fabbriche e tutti i luoghi di lavoro, si alleggeriscono del peso di cappotti e impermeabili, coperte e pigiami, giacche, gonne e pantaloni, tagliano i contatti con sciarpe e foulard, cravatte e calzini.
Sono levigati, oliati, decorati, abbronzati, tatuati e ben torniti, oggetti digitalmente modificabili e dunque virtualmente clonabili, pullulano nelle spiagge e sugli scogli, nei villaggi vacanze e nei luoghi della movida estiva e le loro copie replicanti occupano gran parte dello spazio Social, dove, a getto continuo, vengono immessi per dare segno forse di una effimera bellezza, certamente di un’ansia di apparire, di una inarrestabile frenesia collettiva di selfizzarsi in icone e mostrarsi al voyeurismo pubblico e annoiato, piu’ assuefatto che arrapato.
Sono gli ultracorpi, le varianti estive e tecnologicamente fruibili dei nostri corpi e corpiciattoli, che vengono diuturnamente e pervicacemente esposti in vetrina, in cerca di ristoro narcisistico, dell’ammirazione collettiva, forse soltanto dell’autocompiaciuto specchiamento.
L’esaltazione parossistica del corpo oggetto, del corpo che ho, che, immesso nei circuiti digitali, sembra quasi potere vivere di una vita tutta propria (una sorta di ultracorpo indipendente e autonomo…) sino a diventare “ il corpo che e’ “, ormai sganciato dal referente umano cui una volta pur appartenne.
Il tono iperbolico e immaginifico di queste riflessioni non ci impedisca di cogliere sprazzi di verità ma anche di ulteriorita’ psicosomatiche e fenomenologiche. E per fare questo ricordiamo che la lingua tedesca ha, per indicare il corpo, due termini: korper e leib. Del primo abbiamo finora abbondantemente accennato; come ci ricordano i grandi filosofi e psicopatologi di orientamento fenomenologico – da Husserl a Merleau Ponty – il korper e’ il corpo cosale, il corpo che ho, esaltabile e duplicabile nelle immagini digitali e commercializzabile , come abbiamo visto, in cambio di sguardi di interesse e di apprezzamento.
Quello di cui non abbiamo ancora parlato è invece il leib, il corpo vivo, il corpo che sono, il corpo vissuto. E’ il corpo che sente e patisce, soffre e percepisce, mentre il korper e’ un oggetto che si muove in un mondo fisico insieme ad altri corpi oggetto.
Tra il corpo cosa, e dunque apparenza, e il corpo carne e vissuto, c’è anche una differenza decisiva che Merleau Ponty mette bene in evidenza quando ci dice che l’intenzionalta’ della coscienza umana, la spinta verso il mondo, e’ possibile solo grazie al fatto che abbiamo un corpo vivente attraverso il quale sperimentiamo tutte le differenti aperture al possibile; come afferma Vincenzo Costa, il corpo vivo, il leib, e’ una struttura necessariamente e originariamente relazionale, perché rappresenta l’orizzonte delle possibilità di azione.
E qui siamo di fronte a un lacerante paradosso che la declinazione delle due modalità corporee ci consente di cogliere: enfatizziamo l’immagine del corpo cosale, lo trasformiamo nel principale oggetto ornamentale della nostra vita, lo rappresentiamo digitalmente quasi che possa vivere di vita propria, speriamo con questo di elevarlo a strumento privilegiato del nostro successo sociale mentre non riusciamo piu’ ad “abitare” il corpo, a sentirlo, a sentire le sue richieste, lo desensibilizziamo mentre lo esaltiamo.
Ci presentiamo al mondo con l’immagine del nostro corpo, e depotenziamo il vissuto del corpo che e’ la chiave di accesso al mondo e alle relazioni. Eppure a volte, anche senza volerlo e senza pensarlo, il corpo che sono, il corpo vissuto e vivente – e non la sua deriva cosale – si impongono alla coscienza con la forza di un’epifania: sono a due passi dal mare, sdraiato su un lettino, leggo, guardo attorno, mi distraggo, penso, mi rilasso, faccio un bagno, poi un altro, nuoto, mi immergo, faccio il morto, poi una doccia, poi un altro bagno e poi un’altra doccia, mi sdraio, chiudo gli occhi e una sensazione di pieno benessere mi pervade, e’ raro sentire il mio corpo in una condizione di cosi’ intensa armonia, penso che in quel momento sono davvero in pace col mio corpo, in uno stato di totale sintonia, e mi piace percepire questa sensazione di integrazione e ristoro; non mi verrebbe di farmi un selfie neanche se fossi il più gran figo della spiaggia (ipotesi, per la verità, estremamente remota).
(L’altra estate, pt. VI)