E’ terminata “PIÙ LIBRI PIÙ LIBERI”. Non ho nulla contro le fiere librarie in generale e contro PLPL in particolare, che quest’anno mi è parsa più “scintillante” che mai, che anzi ritengo un valido momento di aggregazione tra i vari elementi della filiera editoriale, non ultimo il lettore.
Non ho nulla contro il concetto, in definitiva, ma non mi è mai piaciuta la sostanza.
Non parlo degli autori (lo sono anch’io), che fanno benissimo a partecipare e a dare una finestra di risalto aggiuntiva al proprio lavoro, ma non mi piace questo spirito di editoria “anti-imprenditoriale” che non fa bene a nessuno, soprattutto se poi uno degli slogan della fiera romana diventa: “Più editori, più autori”… E cosa vorrebbe dire? Significa forse che aumentare ulteriormente la quantità di editori improvvisati e di materiale editoriale scarso immesso periodicamente sul mercato aiuterebbe la ripresa di un processo e di una filiera sempre più malati? E secondo quale criterio, di grazia?
Io credo sempre più fermamente, invece, che soltanto il vaglio e la conseguente riduzione della produzione libraria possa garantire, oltre che una doverosa “selezione naturale”, anche più rispetto per il lettore e più margini per chi questo mestiere lo fa per professione e con reale cognizione di causa.
“Anti-impreditoria”, dicevo. Sì, perché un elemento fondamentale che dovrebbe contraddistinguere un’attività imprenditoriale (e fare l’editore lo è) è il lecito ricavo. Eppure sembra che questo concetto, semplice e basilare, spesso per gli editori non debba contare. Non soltanto per il pubblico e terzo pensiero, si badi, ma persino per gli editori stessi, disposti a partecipare a carrozzoni mediatici dove la remissione è quasi sistematica per la mera esigenza di esserci. Ed esserci per cosa, in fondo? Per quale utile? Perché partecipare a fiere per le quali i ricavi non sopperiscono quasi mai (tranne pochissime eccezioni) ai costi? Perché partecipare a fiere dove la presenza stessa è sottoposta a gabelle così alte da allontanare a priori qualsiasi ipotesi di guadagno economico?
Ora, se un autore (che di sola scrittura non vive quasi mai) può decidere di investire qualche decina o centinaia di euro per il gusto (certamente comprensibile) di “esserci”, questo non può farlo un imprenditore, che alla passione e alla qualità del lavoro dovrebbe abbinare sempre, e dico SEMPRE, un valido tornaconto economico.
Il problema, però, è costituito anche dal fatto che in Italia alcuni marchi editoriali sono “sfizi” di imprenditori che guadagnano già in altri settori, di hobbisti facoltosi, di pensionati d’oro, di tutta quella fetta di professionisti (?!?), insomma, che di libri non deve vivere.
Ci sono parametri oggettivi per iniziare a stilare una classificazione ufficiale e univoca degli editori italiani e inserirli, dunque, in una fascia “media”, “alta” o “piccola”, che sono poi, in sostanza, gli stessi parametri che già usa l’Isbn: pubblicazioni totali e annue, autori, copie vendute, fatturato, ecc. Fatto questo, gli organizzatori di fiere di questa portata, e non solo, che dovrebbero essere le istituzioni senza mire di guadagno, potrebbero scegliere gli editori in base a tale classificazione e invitarli a partecipare, magari attraverso un equo gettone di rimborso e non tariffe a svariati zeri. E in tal modo, forse, diventerebbero fiere del merito e della proposta libraria reale, e non continui sipari della vanità editoriale. Perché anche la vanità ha un costo, purtroppo, ma per soddisfarla basta pagare… Perché non è vero che per essere più liberi servono più libri. Proprio no. Per essere più liberi si dovrebbe semplicemente leggere di più, e per incentivare questo occorrono molti meno libri, ma di maggiore e certa qualità.