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Stamane, al corso di Comunicazione con i miei studenti del 1° anno di Medicina, abbiamo affrontato il tema della comunicazione tecnologica e dei tanti cambiamenti che sta determinando nella nostre vite. Ho cercato di introdurre la questione di uno dei più rilevanti tra questi, che è il passaggio dalla dimensione psicosociale della riservatezza e della discrezione, a quella della condivisione allargata, dalla “privacy” alla “pubblicy”, dall’esigenza di proteggere la propria vita privata, sottraendola agli sguardi indiscreti, al bisogno di esporla agli sguardi voyeuristici di chiunque. Mi è venuto di proporre un esempio, credo calzante, forse inquietante. Che riguarda le tante immagini che disseminiamo incessantemente sui social che ci ritraggono vestiti, ma anche svestiti, per esempio in costume da bagno: discreto, succinto, castigato, bikini, intero, tanga, perizoma e quant’altro. E’ un’abitudine talmente diffusa e generalizzata che non ci facciamo neanche più tanto caso, anche quando lo fanno persone non più giovanissime, professionisti, terapeuti, personaggi pubblici o gente comune.
Per spiegare agli studenti e a me stesso lo scarto molto ampio tra questi cambiamenti del costume (non da bagno in questo caso) e il modo di fare dei nostri nonni e genitori ho chiesto all’uditorio di immaginare 20 o 30 anni fa un comune cittadino, una signora qualsiasi, un ragazzo o una donna matura, un impiegato, un medico o uno psicologo, una dottoressa o un’insegnante che, di ritorno dalle vacanze a mare, sviluppate le fotografie scattate con la Kodak, ne affiggono un paio sulla porta di casa o in portineria, qualche altra sul luogo di lavoro in bella vista, e qualche altra ancora sulle mura esterne della propria abitazione e un po’ in giro per il quartiere. Il paragone potrebbe sembrare un po’ disallineato, in realtà quando ci pubblichiamo in Rete, noi facciamo molto, ma molto di più che esporci agli sguardi di vicini, colleghi ed amici, perché ci offriamo alla visione di un potenziale infinito di sguardi di sconosciuti, a centinaia, a migliaia e anche molti di più, se non utilizziamo qualche criterio restrittivo nei nostri post. Criterio che in ogni caso ha una efficacia relativa, perché la digitalizzazione di un’immagine e la successiva immissione in Rete ce ne fanno perdere immediatamente e completamente il controllo, come tante vicende, anche drammatiche, ci dimostrano.
La smania di selfarsi e quella di mostrarsi negli spazi virtuali sanciscono incontrovertibilmente l’aumento esponenziale delle nostre quote narcisistiche che si esprimono anche in queste minime e apparentemente innocenti psicopatologie della vita digitale. Niente di tragico, indubbiamente c’è molto di peggio intorno a noi e dentro la Rete, ma temo che valga la pena, come abbiamo fatto con i miei studenti, riflettere un tantino su queste trasformazioni della nostra vita mentale, specialmente se riguardano la perdita di valore e pregnanza della dimensione privata del Sé e se hanno ridotto il nostro Giardino segreto interiore, in una Fiera ad accesso libero, in una Mostra-mercato permanente di noi stessi, o di quello che crediamo di essere. Con l’allusione, piuttosto curiosa, al fatto che anche noi stiamo velocemente transitando da oggetti del Reale a sue evanescenti rappresentazioni.